Un bicchiere di rabbia – Um copo de cólera, recensione del film di Aluizio Abranches
Un bicchiere di rabbia: “Datemi dunque un corpo: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare”
“Datemi dunque un corpo: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita”. “Un bicchiere di rabbia“, nella pulsione libidica del titolo, si trova perfettamente dentro l’analisi succitata di Gilles Deleuze. Nel cinema è quanto può definirsi uno spettacolo/performance di posture, atteggiamenti del corpo, che manifestano vibrazioni dell’interiorità. Il movimento, le stasi del corpo sono già modalità di un firmamento espressivo, e di una polarità tra luoghi, spazi aperti e corpi o ambienti delimitati, universo figurativo già rappresentato perfettamente dal cinema di Michelangelo Antonioni.
La casa di distribuzione Teodora Film, costituita dal critico Vieri Razzini con Cesare Petrillo, ha fatto un’ottima scelta per il suo debutto. Il regista Aluizio Abranches, peraltro al primo lungometraggio, dimostra una finissima sensibilità verso i corpi e la sua macchina da presa è avidamente puntata in cerca dei gesti. I due amanti compongono un’infuocata cerimonia, che attraversa, come in molto cinema francese nouvelle vague, Jean-Luc Godard (“Il disprezzo“) o Jacques Rivette (“L’amor fou“), tutte le posture.
Il movimento dialettico è strutturato su una prima parte, in cui i due amanti copulano armoniosamente (i due attori sono marito e moglie nella vita) all’interno della villa immersa nella vegetazione oscura e penetrante non lontano da San Paolo in Brasile.
E una seconda parte in cui emergono le posture aggressive. I due si scontrano rabbiosamente, rinfacciandosi epiteti d’ogni genere. In questa seconda parte l’espressione, ancorché affidata ai suoni, ai toni vocali, si rimette coerentemente al gesto, che rivela una dimensione puramente brechtiana. Infatti, tali gesti si slegano completamente dalla situazione narrativa, sprofondano in un linguaggio teatralizzato che assume gradualmente coordinate sempre più metafisiche, vicino alle idee e non alla gloria personale di colui che recita, per esempio – come osserva Roland Barthes – Marlon Brando in “Ultimo Tango a Parigi“, il film più citato a proposito di “Un bicchiere di rabbia“.
Un tratto importante hanno i luoghi. In “Un bicchiere di rabbia” lo spazio tende principalmente a limitare i movimenti dei personaggi come nei Kammerspiel, a costruire quasi degli ostacoli, dei segmenti, o percorsi che inducono l’azione a movimenti nevrotici, che entrano in crisi di fronte agli spazi apparentemente più aperti. Nella stanza da letto si celebra l’impeto amoroso e la riconciliazione. Nel cortile di fronte la casa, entrano in gioco i perturbanti stimoli del mondo esterno. La crisi della coppia è l’insuperabile differenza di percezione del mondo esterno. Ossessiva, tempestata da manie di persecuzione quella dell’uomo, un agricoltore che tende a rinchiudersi sempre più in se stesso. Serena, conciliante, estroversa, quella della donna giornalista.
Un bicchiere di rabbia
Regia: Aluizio Abranches
Sceneggiatura: Aluizio Borges, Flavio Tambellini, tratta dal romanzo “Um copo de còlera” di Raduan Nassar
Fotografia: Pedro Farkas
Produzione: Flavio Tambellini
Origine: Brasile, 1999, 78 min.
Genere: Drammatico