Anatomie d’une chute di Justine Triet, il crollo, la caduta come analisi sulla (dis)umanità

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Anatomie d'une chute

La Palma d’Oro a Cannes 2023 ha convinto tutti, forse anche inconsapevolmente sulla perigliosa frontiera di giudizio sull’umanità del 21mo secolo. Anatomie d’un chute di Justine Triet

La (dis)umanità è una condanna per l’uomo del 21mo secolo. Non c’è alcuna possibilità di scampo. E il titolo di questo film diretto da Justine Triet parla proprio chiaro laddove rileva l’ostinazione umana alla divisione, alla competizione forsennata spacciata per realizzazione, emancipazione, ecc. Tutta vanagloria per ego smisurati che vogliono conquistare una vetrina.

Così, alla fine, lo scontro in una coppia non è solo quello che riguarda il 99% di tutti i dettagli del rapporto, ma anche e soprattutto la conquista di obiettivi che devono soddisfare l’egoismo dei vari personaggi.

Samuel e Sandra sono il prototipo di una famiglia ambiziosa: un solo figlio perché ci sono le carriere, suddivisione dei compiti con intransigenza verso ogni concessione all’altro, mentre sul piatto della bilancia ci sono tutti gli eventi “condivisi” nel passato, pronti a uscire fuori in maniera rabbiosa, interpretati da una parte e dall’altra, come elementi in grado di mettere in piedi una lucida realtà, che è invece la somma di posizioni soggettive…

Prova ne sia che dalla registrazione della lite, ne esce un quadro davvero triste… La vita di famiglia è soltanto una lotta per la sopravvivenza dove solo il più astuto, il più forte infine prevarrà…

Ci saranno dunque vittime e vincitori. C’è il figlio Daniel che è una vittima almeno 2 volte. La prima quando forse ha subito un incidente per distrazione del padre, la seconda quando è chiamato a testimoniare, ma a questo punto si rende conto che se vuole sopravvivere deve accettare il gioco degli adulti, mandando all’aria le ipocrisie, e lasciando basita la giudice per la lucidità mostrata, la sua analisi dei fatti è alla fine quella che porterà alla soluzione. Il suo ricordo di un evento con il padre e soprattutto l’amato cane, vero protagonista della messa in scena, in quanto solo dalla prospettiva del cane vediamo l’umanità malata descritta nel film.

Ed in fondo sarà lo stesso Samuel a rilevare la differenza tra uomo e cane, il quale vivrà solo di altruismo verso il padrone, tutto il resto non conterà per lui nulla fino alla morte. E sarà il cane a sacrificarsi due volte, la prima quando ignaro sarà attratto dal vomito velenoso del padrone, la seconda quando sarà avvelenato da Daniel, ecco che anche lui rivela la sua natura di disumanità, che gli farà ingoiare diverse aspirine solo per ottenere un vomito, il cui odore gli avrebbe consentito di ricostruire la vicenda della morte del padre. Peccato, però che in questo frangente il cane ci rimette quasi la pelle…

Nella distopia umana anche il processo diventa un circo delle meraviglie tra colpi bassi e coup de theatre, dove infine si ricorre alle citazioni dei romanzi di Sandra per provare o meno che sia un’assassina…

Justine Triet è molto efficace sia nelle riprese ravvicinate che nella scrittura, badando sempre a non svelare niente sul caso che alla fine si chiude con una totale incertezza sulla verità dei fatti accaduti.

Ma la verità nel circo umano è da molti anni assente. Rimane la baldoria, la vanagloria degli egoismi, l’assenza di empatia e di comprensione soprattutto per quegli animali domestici costretti alla prigionia con l’aguzzino uomo, ma che rivelano interamente il dramma di una umanità irredimibile.

Tutto ciò vien fuori inconsapevolmente dal film, leggendo quegli eventi chiave della narrazione e seguendo la prospettiva che infine ci conduce a questa chiave di lettura, l’unica possibile se non si vuole rimanere in eterno dentro il circo della narrazione autarchica dell’umanità…

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